Annachiara Modena

Integrazione socio-sanitaria: cos’è?

Il benessere e la salute riguardano più dimensioni della vita, e questo si sa. Per questo mantenersi in salute e tutelare lo stato di benessere è molto di più che assumere farmaci. Allo stesso modo malattia e fragilità mentali non si possono affrontare solamente con un approccio farmacologico. C’è molto di più.
È infatti fondamentale garantire alle persone risposte ai loro bisogni che integrino il punto di vista sociale e quello sanitario.
La cultura del mero intervento clinico nei confronti dei problemi umani sta lasciando spazio alla consapevolezza che l’individuo si trova inserito in un ambiente che può portare tanti fattori di disagio, così come può costituire una grande risorsa per superare le difficoltà.
La qualità delle relazioni che le persone tessono all’interno del loro ambiente sono, dunque, fondamentali. Nel bene e nel male!

Lo sguardo sociale punta la lente di ingrandimento sulle relazioni, sulle condizioni economiche e lavorative, sulle risorse, sulle fragilità personali di ognuno per poi ideare progetti di portata più ampia rispetto al solo trattamento farmacologico.

L’altro giorno mio papà, raccontandomi che il distretto di competenza si sta occupando della domanda di inserimento della nonna in casa di riposo mi ha nominato, come uno scioglilingua, termini simili a “Svama” e “Uvmd”, guardandomi perplesso. Non lo biasimo per non aver azzeccato la pronuncia giusta ma neanche per la sua richiesta di aiutarlo a comprendere.
Gli ho spiegato che ad ogni anziano viene assegnato un punteggio, esito della compilazione di una scheda (appunto Svama che sta per “scheda valutazione multidimensionale dell’adulto e dell’anziano) e discusso in un incontro (Uvmd alias unità valutativa multi dimensionale) in cui si tiene conto di aspetti sociali quanto di aspetti sanitari coinvolgendo così l’assistente sociale di riferimento, il medico di base, altre figure professionali ecc.
Capiamoci: sicuramente la non autosufficienza dell’individuo è ciò che pesa di più sulla bilancia ma contano anche tutte quelle informazioni in merito a chi può prendersi cura della persona quindi la disponibilità e grandezza della sua rete familiare, l’abitazione, i redditi ecc..
Tutto concorre a fare una fotografia reale e concreta della situazione dell’anziano in questione e a creare una graduatoria in cui il vincitore non è chi ha più bisogni sanitari, o almeno non solo.

Poi rifletto su istituti quali il riconoscimento dell’invalidità civile e della L.104/92 ovvero la legge sull’assistenza e l’integrazione delle persone con handicap.
Quando lavoravo in ospedale e mi occupavo delle domande di tali istituti, la commissione INPS, che a quel tempo aveva accesso ai reparti e incontrava i pazienti ricoverati, apprezzava ricevere informazioni dettagliate sul punto di vista sociale. Certe informazioni non le avrebbero mai trovate sui fascicoli di esami e visite dei pazienti e non avrebbero potuto integrare il loro giudizio medico con qualcosa che fa da cornice ad ogni malattia e fragilità. La persona con chi vive? Lavora? Ci sono barriere architettoniche dove abita? La situazione economica? Sono solo alcune domande, le cui risposte riempiono di significato, non esclusivamente sanitario, la scelta di una percentuale di invalidità e una L.104/92 bocciata o approvata.

Anche l’assunzione di medicinali da parte di una persona fragile può essere un elemento oggetto di una valutazione anche sociale: “C’è qualcuno che può gestirne l’assunzione secondo l’orario scritto sulla prescrizione?” – Sembrerebbe una banalità ma non lo è.
Lavorare in équipe in cui i professionisti hanno competenze e punti di vista diversi permette di mettere sul tavolo quesiti di tale portata e pensare ad una progettualità che consideri il maggior numero di dettagli possibili.
Accade sempre di più quando ci si trova di fronte a situazioni di dipendenza da sostanze. Credetemi che non è mai solamente un problema di addiction. Il più delle volte c’è anche un problema abitativo, lavorativo, relazionale che impedisce al farmaco o qualsiasi altro intervento sanitario utile a favorire l’astinenza di fare il suo dovere.
Mi ricorderò sempre uno dei primi casi incontrati nel mio percorso: Matteo T., signore senza fissa dimora inserito in un dormitorio, rapporto simbiotico con la madre, 30 anni di tossicodipendenza e alcolismo, continue ricadute nonostante la terapia. Il deficit psico-fisico causato dalle sostanze, infatti, aveva ripercussioni sulla sua possibilità di trovare un lavoro e un’abitazione e allo stesso tempo l’impossibilità di trovare la propria autonomia e la permanenza all’interno di una struttura a contatto con altri utenti provenienti dalla “strada” non gli permetteva di astenersi dalla sua dipendenza.
L’inserimento all’interno di un appartamento protetto, il concordare l’utilizzo del metadone, la costruzione della relazione con educatori, medici e assistente sociale, il reperimento di un lavoro ha fatto la differenza per l’autonomia e il benessere della persona.

L’integrazione non è dunque una sfida tra sociale e sanitario, tra prendersi cura e curare.
Non si tratta neanche della sommatoria delle azioni di singoli professionisti o del contenitore di ansie e insicurezze di chi deve assumersi responsabilità nella progettazione di percorsi di aiuto. È la consapevolezza che il benessere della persona è nel punto di congiuntura, in quel trattino tra sociale e sanitario.

Ti è mai capitato di addentrarti nel variegato mondo degli interventi socio-sanitari? Ed è stato subito tutto chiaro?
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