Annachiara Modena

Gioventù rubata: come stanno davvero i nostri ragazzi?

Gioventù rubata: prendo in prestito le parole del professor Petropolli per riassumere ciò che mi sono ripetuta più volte al termine del convegno dedicato all’adolescenza a cui ho partecipato il 22 ottobre 2022.
Sono stata anch’io un’adolescente. Non durante una pandemia. Non nel pieno utilizzo dei social network come mezzo principale di comunicazione. Non quando il tempo scorre più dentro che fuori casa. A me non è stato rubato qualcosa e la distanza tra ciò che ho vissuto io e ciò che ora vedo come professionista dell’aiuto mi permette di unirmi al coro che dice che siamo di fronte agli strascichi lasciati dal Covid.

Se già c’era qualcosa di latente ora è ben evidente: si è abbassata l’età in cui si manifestano disagi mentali e comportamentali e sono aumentate le certificazioni scolastiche. Tutto chiede una risposta complessa perché a complessità risponde complessità, non semplificazione.
Si è concordato che serve integrazione: non come somma di risorse ma come l’interconnettersi di competenze e la trasversalità tra professionisti specializzati appartenenti al pubblico e al privato.
Accanto a ciò è necessario guardare anche alla dimensione più vicina ai nostri ragazzi, quella più familiare.
A fronte della crisi del patriarcato, ci siamo chiesti se possiamo ridare un ruolo alle figure genitoriali, in special modo ai padri. Sì, quella responsabilità paterna di insegnare che la vita ha una doppia dimensione: vittoria e sconfitta.
Ce l’abbiamo tutti in mente l’immagine del genitore che sugli spalti, di fronte al figlio che corre inseguendo la palla in un campo da calcio, inneggia al successo.
Ma i giovani sono sensibili, hanno la pelle così sottile da far fatica ad accettare i fallimenti senza provare vergogna, a non essere come sognavano di essere o come gli altri sognano che loro siano. Tutto si traduce in un dolore profondo, in una fragilità narcisistica e nella loro sensibilità emotiva gli adolescenti non sembrano voler provare ciò che non rientra in uno stato di pace e normalità.
Forse dovremmo pensare di insegnare loro che certe sensazioni ed emozioni per quanto apparentemente negative ci tengono vivi, reattivi.
Ecco, dunque, che il rimuginare su questi aspetti nella piena solitudine della propria stanza ha trasformato il corpo in un bersaglio con cui giocare quando “non si sa cosa fare, come fare”. Emergono così i fenomeni di autolesionismo e l’uso patologico di internet.
Aggiungiamo anche il fatto che il gruppo dei pari non è più qualcosa di reale, qualcosa di tangibile ma si forma come un gruppo virtuale dove gli scambi non sono verbali ma rappresentati da lettere ed immagini sul cellulare. Si approda dunque ad amicizie virtuali, amore virtuale, sessualità virtuale. Ed anche la scuola è diventata virtuale.
I giovani cercano così soluzioni per affrontare questa realtà incerta anche nelle droghe, quelle sostanze chimiche che creano un altro sé, probabilmente più accettabile dell’originale.
E se come professionisti ci troviamo di fronte anche a vere e proprie dipendenze anche in età adolescenziale, non possiamo arrivare impreparati di fronte ad esordi psicotici e quindi alla necessità di usare psicofarmaci o incapaci di lavorare sulla regolazione emotiva di tutte quelle giovani che non si sentono bene nel loro corpo e riversano la loro insicurezza nel rapporto con il cibo.
Abbiamo concluso guardandoci tutti, ognuno con il proprio ruolo addosso, che il disagio giovanile è un problema che ci tocca prima di tutto come esseri umani e che non possiamo lasciarlo andare alla deriva e che i ragazzi sono un patrimonio di tutti.

Cosa ne pensi? Ritrovi nel mondo che ti circonda ciò che è emerso durante il convegno e che ho riassunto davvero brevemente?
Non credo serva essere genitori, insegnanti, medici o altro per alzare lo sguardo e cogliere quanto davvero è stato rubato ai giovani.

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