Comunità è una parola che sentiamo sempre più frequentemente, soprattutto quando si toccano tematiche che riguardano il sociale.
È diventata la realtà per e con cui si lavora assiduamente in un periodo in cui lo Stato manca di risorse e ha bisogno di ottimizzare quelle rimanenti.
Fare innovazione significa rivedere il ruolo della comunità, intesa sia come luogo fisico sia come insieme di legami e relazioni con lo scopo di renderla attiva e dinamica.
Il lavoro sociale di comunità può prevedere ad esempio la riqualifica di un ambiente, la sua trasformazione per metterlo al servizio delle persone che lo abitano. Se è vero che i progetti, le risorse e le decisioni arrivano dall’alto con tempi molto lunghi, è possibile al contrario favorire una logica di bottom up, di spinta dal basso.
I cittadini stessi hanno la possibilità e il dovere morale di scegliere come adattare il luogo in cui vivono alle proprie necessità, dando concretezza a quelle idee che non può avere chi è più lontano dalla quotidianità del quartiere.
Pensiamo agli spazi che la comunità decide di trasformare: centri di aggregazione, ricreativi, intergenerazionali, orti sociali, campi sportivi ecc.
È la comunità che diventa protagonista della “bonifica sociale” del mondo in cui vive, acquistando potere e autonomia.
Se lo Stato per agire ha bisogno di risorse finanziare e materiali, la comunità genera valore sociale dalle relazioni e dai legami tra le persone e l’attaccamento al luogo in cui risiede.
Contro la logica individualista che ha caratterizzato la società per diversi anni, ora come ora si diffondono soluzioni di origine comunitaria per affrontare problematiche di rilievo.
Si riconoscono le proprie dotazioni territoriali e si attivano attori di natura diversa, identificando l’apporto di ciascuno e valorizzando gli interessi sociali ed economici.
Anche le piccole imprese hanno il loro ruolo: incorporano all’interno delle proprie economie la mission di generare valore sociale, introducendo modelli organizzativi più vicini ad un approccio comunitario ed instaurando legami con altre realtà.
Sono molte quelle che hanno deciso di fare del sociale una delle proprie missioni e di mettere a disposizione delle persone la produzione come mezzo per apprendere, ricominciare, riprodurre e generare capitale. Vi consiglio di sbirciare il sito di Progetto Quid per avere un esempio.
Il profitto non è più la sola molla che spinge le imprese a rimanere sul mercato, ma la produzione di valore sociale diventa un motivo di competitività.
La diffusione sempre più frequente di rapporti di cooperazione, di tavoli di concertazione, la stipula di patti, la creazione di consorzi mettono in luce come le realtà cedano una parte della propria indipendenza e del proprio individualismo per aumentare le possibilità di efficacia e di efficienza dei progetti pensati e poco realizzabili singolarmente.
Consideriamo anche la gestione da parte di genitori di strutture pubbliche come scuole e asili nidi, tutti quei progetti inclusivi che nascono dalle biblioteche, dalle università, da gruppi di giovani che decidono di investire nel sociale la propria formazione e di avviare start up.
La comunità, quindi, diventa un interlocutore privilegiato, capace di creare al proprio interno canali comunicativi e relazionali da espandere poi all’esterno e di evitare quella frammentazione tipica invece del Welfare.
Diventa un’incubatrice di necessità, di bisogni di varia natura ma allo stesso di attori nuovi, di idee e di innovazione. Si può giungere alla realizzazione di piccole grandi cose anche in mancanza di risorse finanziarie, svelando quella capacità di saper generare lontana dalla logica statale assistenzialista.
Hai voglia di condividere qualche progetto in cui è evidente il ruolo attivo della comunità?